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  • L’ANSIA a cura di Monica Rebuffo


    L’ansia è una spinta all’azione, all’esplorazione, alla ricerca, è un sentimento comune e universale che ognuno di noi può provare, soprattutto in particolari momenti. E’ proprio l’ansia di conoscere e di imparare, che ci fa diventare più competitivi, che accresce la nostra cultura e le nostre capacità.

    L’ansia, è anche un meccanismo di sopravvivenza costituito da risposte automatiche, corporee e mentali, che ogni animale, uomo compreso, sviluppa di fronte a situazioni di minaccia, di pericolo, di conflitto, che lo aiutano a reagire nella maniera migliore. Per esempio, alla luce di questo meccanismo si spiega quello che, nel gergo comune, viene definito “sangue freddo”. Atteggiamento che molte persone scoprono di possedere in situazioni di emergenza e pericolo.

    Tuttavia, quando questo meccanismo si spinge oltre i limiti che separano, l’azione stimolante da quella inibitrice, esso finisce per diventare patologico. L’ansia diventa allora uno stato d’animo penoso, sempre accompagnato da manifestazioni corporee (tachicardia, oppressione toracica, cefalee, spasmi gastrici, eccetera) e mentali (agitazione,) che a volte compromettono, in modo davvero significativo, la qualità di vita della persona.

    Il tipico paziente ansioso, vive sempre in bilico, accompagnato dal terrore costante di cadere, da un momento all’altro. Il disagio, è la sensazione tipica e costante, che lo accompagna e lo caratterizza. Questa situazione di allerta e paura, spinge la persona all’amplificazione dei suoi vissuti interni, e diminuisce la capacità di ascolto e correzione, che la realtà esterna gli restituirebbe.

    La preoccupazione costante, del pericolo della malattia o della disgrazia, lo rinforza nei meccanismi castranti dell’evitamento. La persona, interrompe così, il sano e produttivo processo di investimento nella vita, che è per definizione crescita e cambiamento, rimanendo incastrato nella ricerca di una omeostasi illusoria. Tutto fermo e cristallizzato.

    Ecco allora che l’ansia, fisiologicamente percepita come meccanismo funzionale alla crescita, quando diventa eccessiva e non accettata si trasforma nel suo opposto, diventando così cristallizzazione e rigidità.


    ED IO, SONO CAPACE A NON AMPLIFICARE I MIEI VISSUTI INTERNI, RIMANENDO IN CONTATTO CON LA REALTA’?

  • VIOLENZA SULLE DONNE. L’amore malato. A cura di Monica Rebuffo

    Sono dati allarmanti e sconvolgenti, quelli che riguardano i primi 10 mesi del 2018, 106 femminicidi, uno ogni 72 ore. Sono 3100 le donne uccise dal 2000 ad oggi, più di 3 donne a settimana. Questo è quanto emerso dal rapporto EURES, in vista della giornata internazionale della violenza sulle donne, il 25 Novembre. I femminicidi rappresentano il 37,6% del totale degli omicidi commessi, nel nostro paese, erano 34,8 % l’anno prima.

    Questo tipo di abusi, è compiuto nella maggior parte dei casi, dall’attuale o dal precedente compagno, che pur non essendo riuscito a contribuire alla costruzione di un rapporto sentimentale adulto e soddisfacente, non riesce comunque ad accettarne la fine e agisce violentemente la sua rabbia e la sua frustrazione. Lo fa, scaricandola fisicamente sulla donna ed esercitando, in questo modo, il suo potere fisico distruttivo.

    Oltre al femminicidio, che rappresenta l’apoteosi di ogni violenza, le donne subiscono, ancora più frequentemente, anche atri tipi di violazione:

    • Violenza psicologica . E’ un delitto commesso da chi usa in modo illecito la propria forza psicologica, il proprio ruolo o la propria autorità, svalutando, ridicolizzando o umiliando l’altro, per emergere o per sottomettere. E’ un modo violento di esercitare il potere.
    • Violenza fisica. E’ un delitto commesso da chi usa in modo illecito la propria forza fisica, per imporre le proprie idee o per scaricare la propria frustrazione e fragilità. Caratteristica prototipica del violento, è quella di farsi grande coi piccoli e forte coi deboli.
    • Violenza sessuale. È un delitto commesso da chi usa in modo illecito la propria forza e la propria autorità, costringendo con atti di prevaricazione o minaccia, a compiere o subire comportamenti sessuali contro la propria volontà. Nel caso in cui l’atto sessuale subito, riguardi un rapporto sessuale completo, la violenza sessuale diventa VIOLENZA CARNALE.
    • Stalking. E’ una serie di atteggiamenti tenuti da un individuo, che affliggono un’altra persona, perseguitandola, generandole stati di paura e ansia, arrivando sino a compromettere lo svolgimento della normale vita quotidiana.

    La domanda che ci sorge spontanea di fronte a queste situazioni, è quella di chiederci il perché tante donne, subiscono a lungo queste relazioni, senza sottrarsi a queste violenze? Perché perdonano irrazionalmente ed illusoriamente questi uomini, palesemente problematici e malati? Chiaramente bugiardi e fragili. Incapaci di modificare i loro comportamenti, perché frutto di disagi e immaturità mai colmate.

    La risposta forse, risiede nei medesimi motivi. Anche il “motore di vita” di queste donne, è impregnato di paura, di sottomissione, di debolezza, di insicurezza, di dipendenza, di svalutazione, di idealismo e di incoerenza. Anche queste donne, hanno mille fragilità e immaturità. Per questo motivo, non riescono a fare la scelta giusta … o forse sarebbe meglio dire la scelta “sana”. Per questo, non riescono ad esercitare una forza di volontà, che le accompagnerebbe fuori da questi “amori malati”.

    Probabilmente, il percorso di crescita di questi uomini e di queste donne, è stato colmo di adulti, che non hanno saputo fare gli Adulti e non li hanno accompagnati, in un sufficiente percorso educativo di maturazione.

    L’Adulto parte da se stesso, per migliorare, non dall’altro. Comincia lui a cambiare e a crescere, non si mette sul piedistallo puntando il dito.

    L’Adulto, possiede senz’altro la capacità di ascoltarsi, di conoscersi e di mettersi in gioco. E’ in grado di chiedere scusa e di riconoscere i propri errori e i propri difetti, imparando addirittura ad amarsi attraverso le sue imperfezioni.

    L’Adulto che ascolta … insegnerà a palare

    L’Adulto che rispetta … insegnerà il valore delle persone

    L’Adulto che sbaglia riconoscendolo … insegnerà a perdonare

    …..

    L’adulto che non sa fare nessuna di queste cose, non è ancora adulto, indipendentemente dall’età che possiede, e insegnerà ai suoi bambini e ai suoi giovani … la sua immaturità, la sua impulsività, l’irrazionalità, la frustrazione, la svalutazione e la paura di non farcela.

    Tutti questi “insegnamenti” nei maschi, diventeranno tendenza all’AGGRESSIVITÀ e nelle femmine, diventeranno tendenza alla SOTTOMISSIONE.

    Ed io che Adulto sono?

  • L’ADOLESCENZA. LA FATICA E LA SCOPERTA DEL CRESCERE. A cura di Monica Rebuffo

    Francesca, ad un certo punto, con mamma non si è trovata più. Non è successo nulla, ma la sua stessa presenza le da fastidio. I suoi interventi anche se vogliono essere affettuosi, sono insopportabili. Francesca cerca dei pretesti per mettersi contro la mamma; non è sempre facile, ma è come se ne avesse bisogno. Che brutto avere una madre in gamba a cui tutti danno ragione! Francesca cerca ora persone diverse da quelle di casa, gente della sua età, forse anche adulti, ma fuori casa.

    Da un po’ di tempo Cristina si domanda cosa voglia dire essere se stessa. Risolve il problema un po’ comportandosi all’opposto di come si comportava prima e un po’ facendo il contrario di quello che le dicono. Non si piace più, né quando si guarda allo specchio (e si guarda sempre più spesso), né quando si sente osservata dagli altri (e le sembra che tutti la osservino). Le succede di sentirsi diversa a seconda dell’ambiente: a scuola, ai giardini, con il gruppo, con l’amica preferita. Le da fastidio per esempio che sua mamma entri in camera e si fermi a parlare quando ci sono le sue amiche. In un momento di calma Cristina si è domandata il perché di tutti questi suoi nuovi atteggiamenti. Il perché si sente di più se stessa, quando i suoi genitori non sono presenti.

    Francesca e Cristina, mostrano la propria incertezza di fronte alla crescita e al cambiamento. Ma l’incertezza dei nostri ragazzi, è la nostra stessa incertezza, di fronte al vivere della società. Tutti vorremmo poter stare tranquillamente in mezzo agli altri, ma nello stesso tempo abbiamo i nostri timori. Di non essere accettati, di non essere capiti, di essere derisi quando mostriamo il nostro vero volto.

    La nostra paura, è tanto maggiore, quanto meno ci conosciamo, ci accettiamo, ci amiamo. Le persone che hanno ben chiaro che cosa vogliono fare della loro vita, come vogliono gestirsi, quale progetto perseguire, non si vergognano di quello che pensano o fanno e riescono a sostenere con maggiore facilità i propri punti di vista, anche di fronte a opinioni contrarie. Chi persegue un progetto, si sente utile e quindi si stima: perciò non ha paura di mostrarsi in mezzo agli altri e generalmente, pensa di essere ben accolto.

    Spesso i nostri ragazzi per differenziarsi dagli adulti, per sentirsi unici, per dimostrare che non sono più bambini, tendono a mettere in atto comportamenti oppositivi e provocatori. In realtà il loro fine ultimo, che neppure loro conoscono, è quello di scoprire chi sono e come sono fatti.

    Ma come fare per conoscersi?

    Ci sono tanti modi, ma forse il migliore è quello di vivere in mezzo agli altri; per questo anche il gruppo è di grande aiuto. Anzi è uno strumento indispensabile nell’adolescenza. Nel gruppo i nostri ragazzi imparano a veder come sono realmente e come reagiscono di fronte all’amico, al meno amico, alle persone diverse. Nel gruppo hanno la possibilità di incontrarsi nella realtà.

    Nella fantasia, possono immaginare di essere le persone più generose del mondo, ma è solo vivendo in mezzo agli altri, che si rendono conto se davvero sono capaci di essere generosi.

    Nella fantasia possono essere dei conquistatori, ma solo nella realtà, si rendono conto se sono timidi o disinvolti.

    Nella fantasia possono dire a se stessi che d’ora in avanti saranno diversi, ma è nella realtà che si accorgono se hanno il coraggio e/o la capacità, di portare qualche piccolo cambiamento nella loro vita.

    Tutti abbiamo la forza di crescere, purchè ci sia chiaro il nostro percorso e venga messa in conto un po’ di sana pazienza! E già neppure Dio ha fatto il mondo in un colpo solo e di sicuro non perché non ne era in grado, forse voleva insegnarci qualcosa a proposito del tempo e della maturazione, dell’attesa e del godimento giorno per giorno.

    La solitudine è un altro modo per conoscersi.

    Ma è una soluzione che ci fa crescere?

    Quando non ci si confronta con gli altri, si soffre meno per le sconfitte, però si gode anche di meno dei successi, si vive nella fantasticheria e si rinuncia a riconoscersi nella realtà. A volte i nostri ragazzi sono tentati da questo, perché nell’immediato è più facile.

    Questo tipo di isolamento nulla ha a che fare con il dialogo che ognuno di noi ha con se stesso e che certamente presuppone attimi di solitudine. Quella riflessività, ci consente un’autonomia mentale ed emotiva e diventa espressione della nostra unicità..

    Vivendo con gli altri, ognuno di noi può prendere in mano la propria vita e imparare a costruirsi a poco a poco. Chi vive in solitudine, rinuncia a costruirsi e si affida ad altri anonimi perché lo costruiscano. La solitudine infatti è riempita di televisione, di canzoni, di fantasticherie, di rimuginamenti e lascia spazio a chi ha più presa su di noi, con il rischio che faccia di noi quello che vuole.

    Solo chi conosce se stesso, può partire per l’avventura di conoscere l’altro. Ma per conoscere se stessi, non potremo mai fare a meno degli altri, che rappresentano per l’essere umano, grande o piccolo che sia, la sua porta sulla realtà.

  • Le aspettative dei genitori sui figli: possibili danni. A cura di Monica Rebuffo

    Figli è quello che siamo, genitori probabilmente è quello che diventeremo. Proveniamo dalla stessa acqua, dalla stessa sorgente e andiamo verso lo stesso mare in un ciclo di trasformazione di una cosa nell’altra. Erickson

    E’ il ciclo della vita. Che si trasforma e ci trasforma accompagnandoci nelle sue diverse stagioni in ruoli diversi. Così da figli diventiamo genitori. Da genitori diventiamo nonni, zii, amici dei nostri bambini e ragazzi. E ancora, verso la fine della nostra vita diveniamo nuovamente figli dei nostri coniugi e dei nostri figli che ci accudiscono e ci accompagnano verso l’imbrunire e la notte della nostra esistenza terrena.

    La nostra vita si arricchisce e ci arricchisce di nuovi ruoli, di nuove sfaccettature senza, però, mai perdere le precedenti. Diventiamo genitori ma continuiamo sempre, per tutta la vita a rimanere anche figli.

    Allora questa essenza incancellabile, questa esperienza razionale ma anche viscerale di figli che siamo e siamo stati, non può non incidere nel bene e nel male sul nostro divenire genitori.

    Per noi genitori, i figli saranno sempre una proiezione esteriore di noi stessi. A qualsiasi età saranno sempre una parte di noi, nel bene e nel male. Allora cerchiamo di mettere a fuoco in quale modo costruttivo e liberante le nostre aspettative ineliminabili possono incidere sul percorso di individuazione di sé dei nostri figli.

    L’aspettativa del genitore è la sua tendenza a proiettare sul figlio il suo ideale di figlio

    Abbiamo già sottolineato nella nostra premessa quanto il nostro essere genitori venga condizionato e inquinato, nel bene e nel male, dalla nostra esperienza di essere stati figli, ma anche dal modello di genitori che a nostra volta abbiamo avuto.

    Proviamo a tradurre la nostra definizione in maniera più concreta e diciamo che il nostro concetto ideale, nasce e cresce su di noi.

    Per esempio, può nascere sui nostri bisogni insoddisfatti, sui nostri sogni, sulle nostre realizzazioni mancate, nello sport, nella scuola, nel lavoro. Ecco allora che il nostro figliuolo si trova implicitamente a dover soddisfare bisogni, sogni, ambizioni che noi non siamo riusciti, per vari motivi, a realizzare. Lui dovrebbe o potrebbe farlo … per noi. In questa categoria, rientrano anche tutti gli errori che noi abbiamo compiuto e che loro non possono permettersi di compiere, perché con il loro successo e la loro riuscita possono risarcire anche noi! In questo primo caso il genitore è insoddisfatto (poco o tanto) di sé e/o della sua esistenza e le sue aspettative ricalcano un idea di risarcimento implicito … ma a volte anche esplicito … da realizzare, attraverso questa parte di noi che sono i figli.

    C’è poi la situazione opposta, quando il genitore è soddisfatto di sé e della sua esistenza e vorrebbe o si aspetta che il figlio ricalchi pienamente le sue orme. Cioè che faccia sostanzialmente tutto ciò che lui o lei hanno fatto o suggeriscono. Poiché essendo e/o sentendosi delle persone realizzate ritengono di essere “esperti” del campo. Quindi sarebbe sciocco per il figlio non approfittare di questa fortuna … per evitare eventuali errori o sofferenze! Il problema in questo caso, non è il fatto che i genitori siano esperti del loro “campo” (se stessi), la qual cosa è sicuramente ottima. Ma è, che ritengano di essere esperti anche del “campo” del figlio, la qual cosa non è assolutamente possibile. Ciò che sanamente questi genitori potrebbero fare è aiutare i figli a diventare esperti di se stessi, imparando a conoscersi e a stimolarsi, dando loro spazio, ascolto e visibilità. Nella pratica educativa, pertanto, non è utile  dire ai figli tutto ciò che devono fare, come lo devono fare e perché lo devono fare. Perché in questo modo li allontaniamo dall’ascolto e dalla conoscenza di sé, dato che devono essere in contatto solo con ciò che dice e si aspetta il genitore.

    In queste due prime situazioni abbiamo visto come il vissuto positivo o negativo del genitore condizioni l’aspettativa che esso ha sul figlio.

    QUANDO LA CENTRATURA DEL GENITORE E’ SU DI SE’, PRODUCE ASPETTATIVE CONDIZIONANTI PER IL FIGLIO. QUESTA IMPOSTAZIONE NON AIUTA IL FIGLIO NELLA INDIVIDUAZIONE E NELLA SCOPERTA DI SE’, ANZI LO ALLONTANA PERCHE’ LO IMPEGNA SOLO AD ASCOLTARE O FARE CIO’ CHE GLI DICE IL GENITORE (ragazzo mite). OPPURE LO IMPEGNA A FARE IL CONTRARIO DI CIO’ CHE GLI DICE IL GENITORE (ragazzo ribelle).

    Ma allora cosa funziona?

    Funziona …

    LA CENTRATURA DEL GENITORE SUL FIGLIO. QUESTO ATTEGGIAMENTO PRODUCE ASPETTATIVE LIBERANTI PER IL FIGLIO E  LO AIUTA A IDENTIFICARSI PIENAMENTE CON SE’ STESSO, CON LE PROPRIE CARATTERISTICHE E LE PROPRIE POTENZIALITA’.

    In questo caso il figlio sarà impegnato nella scoperta di sé e nel farlo non si sentirà solo ma accompagnato e supportato dal suo genitore. In questo caso più economico sarà il dispendio di energie e di tempo impiegato a crescere e apprendere perché il bambino/ragazzo sarà supportato e facilitato e non negato e ostacolato.

    Quindi possiamo dire che la discriminante tra una aspettativa castrante e una non castrante è la direzione di centratura e attenzione del genitore.

    Se noi vogliamo che il rapporto con nostro figlio sia caratterizzato da intimità e vicinanza, dobbiamo lavorare per creare questo tipo di relazione. E la prima cosa in assoluto da fare è: vedere, ascoltare, dare cittadinanza al figlio … essere in rapporto con lui .. non solo con noi stessi.

    Come genitore è importante che io sia centrato sui miei figli, perché questo atteggiamento funziona.

    Quindi:

    1. nel caso in cui mio figlio differisca pienamente dalla mia aspettativa, cercherò di cambiare   correggere la mia aspettativa interna non mio figlio (tipo di scuola; lavoro; realizzarsi nella professione o nella famiglia; ecc.)!

    1. In questa condizione c’è ascolto, accettazione e fiducia nei confronti del figlio.

    1. In questa condizione c’è interazione, cioè accoglienza, oltre che del mio mondo come genitore, anche del mondo del figlio. Da questo nasce il rapporto.

    Alla luce della nostra riflessione possiamo concludere dicendo che le aspettative che il genitore si crea nei confronti del figlio, sono di per sé ineliminabili. Possiamo definirle come l’esercizio a creare dentro noi uno spazio per il figlio. Tuttavia se esse sono suscettibili di correzione nel confronto con la realtà e col figlio, allora non diventano né dannose né condizionanti. Nel caso contrario diventano un ostacolo anche significativo allo sviluppo armonioso della personalità e della vita del figlio.

  • Il corpo questo sconosciuto. La trasformazione fisica nell’adolescente. A cura di Monica Rebuffo

    “Chi sono io?” Questa è la domanda che si pone prima o poi ogni adolescente. Noi possiamo immaginarcelo mentre si guarda allo specchio intento, trasognato, stralunato. Scruta il suo viso, studia le espressioni che può assumere il suo volto.

    Il volto prima di tutto e soprattutto, ma non solo quello.

    Prima o poi ogni adolescente, maschio o femmina che sia, pone lo sguardo sul proprio corpo, uno sguardo, inizialmente schivo e sfuggente, come per prendere prima un rapido contatto con una realtà percepita confusamente e non ancora del tutto fatta propria. Uno sguardo poi più attento, spesso deluso e severo, mentre mette a fuoco la propria immagine, che emerge dallo sfondo delle idealizzazioni infantili e si accorge, che se ne differenzia irrimediabilmente.

    Il corpo, irreversibilmente diverso da quello dell’infanzia, rimane a lungo come uno sconosciuto, nei confronti del quale si prova curiosità, ma anche timore e vergogna, desiderio di entrare in intimità, ma anche diffidenza, simpatia, ma anche fastidio e ribrezzo e soprattutto … impaccio.

    Che fatica sentirsi così impacciato e ingombrante, come se quel corpo non fosse il tuo. Tu, maschio, che vorresti essere solo muscoli e testa e ti trovi invece tutto gambe e braccia, pelo e brufoli e ormoni. E tu, femmina, che ti senti solo cuore, tutta palpitante di un sentimento nuovo, e ti ritrovi proprio quel seno e quei fianchi, e non ti senti mai nel posto giusto.

    Ogni adolescente si guarda, si studia, si odia, si maltratta e solo alla fine può arrivare a piacersi e a compiacersi del cambiamento che è subentrato in lui con la pubertà. Solo alla fine può guardarsi con uno sguardo benevolo, orgoglioso e compiaciuto, può piacersi ed essere contento di come è, e ciò avviene solo molto tempo dopo l’inizio delle prime trasformazioni.

    Perché ciò avvenga, è importante anche il nostro ruolo di adulti, di guide di riferimento pazienti e innamorati di loro, capaci di fargli sentire quel rispetto e quell’accettazione indispensabile alla trasformazione da bambini a giovani.

    In questa tappa evolutiva, la nostra presenza come adulti può essere ancora più necessaria, ma affinché i nostri ragazzi riescano a fruirla, dobbiamo inevitabilmente cambiare il nostro codice di contatto e di comunicazione.

    Diamo loro la possibilità di rispecchiarsi in noi, ne hanno un estremo bisogno, vista la quantità innumerevole di dubbi e paure che li attanaglia. E come non comprenderli. E allora se li comprendiamo facciamoglielo sentire. Dialoghiamo, confrontiamoci, offriamo i nostri punti di vista consentendogli di formarsi i propri. Se si sentiranno accolti e ascoltati anche nei loro modi un po’ sopra le righe, tipici di questa età di cambiamento, riusciranno ad accogliere ed ascoltare noi attraverso i valori e le coordinate di vita che vorremmo trasmettergli.

    Il corpo, rappresenta la parte più visibile e concreta del nostro essere persone, possiamo quasi definirlo come il vestito dell’anima. Così, a seconda dell’uso o abuso che ne facciamo, possiamo ricavare importanti informazioni su di noi e sugli altri. Questo vale sempre, in adolescenza così come in età adulta.

    Le tensioni e i fastidi che spesso esprimiamo attraverso il corpo, rappresentano, non solo una situazione fisiologica di disagio, ma anche e soprattutto una situazione di tensione emotiva, in cui abbiamo una reazione fisica, attivata da problemi e difficoltà o conflitti di carattere psicologico.

    Il corpo diventa così una vetrina del nostro equilibrio emotivo; attraverso la postura, il tono di voce, le somatizzazioni, comunichiamo agli altri e a noi stessi, moltissime informazioni su chi siamo e sul momento che stiamo vivendo.

    Allora non fermiamoci alla superficie dei nostri ragazzi, il corpo appunto, non sdrammatizziamo completamente le loro fatiche liquidandole con un “è l’età”, “passerà”, o peggio “sei cambiato/a non ti riconosco più … ti preferivo prima”, ma andiamo a cercare la persona che attraverso quel corpo e i nuovi atteggiamenti che gli appartengono, sta solo comunicandoci la paura e la fatica di questa meravigliosa e indispensabile trasformazione che è la crescita.

  • L’ARTE DI EDUCARE. Crescere insieme! A cura di Monica Rebuffo

    Educare, significa portare fuori dal figlio, l’unicità che è presente in lui. Questa esperienza di crescita, coinvolge il figlio ed il genitore insieme, così che entrambi beneficino l’uno dell’altro, come in una danza, attraverso l’esperienza, l’amore e l’intenzionalità, il supporto, la comprensione e la libertà.

    In che modo?

    • 1° ingrediente. L’AUTENTICITA’: anteporre la sincerità e l’onestà, all’assunzione di un ruolo.

    Ciò significa essere persone, prima ancora che genitori, non lasciandoci condizionare da principi e valori esterni e rigidi, ma essendo attenti al qui e ora della relazione. Se per esempio, il mio manuale di “buon genitore” mi suggerisce di essere sempre coerente nel mio comportamento coi figli, evitando di cambiare idea una volta presa una posizione, difficilmente potrò essere autentica.

    Capiterà che nuovi “dati” portati da mio figlio … 

    “prendo coscienza che quell’uscita con gli amichetti è importante, non solo per divertirsi, ma anche e soprattutto, perché finalmente si sente a suo agio con qualcuno”

    O miei momenti diversi ….

    “non sono più stanca o preoccupata per qualcosa”

    … mi facciano cambiare idea.

    Cambiare idea, perché abbiamo individuato un’esigenza profonda e utile, alla crescita di nostro figlio o perché ci siamo resi conto, di aver drammatizzato suoi comportamenti, per stanchezza e preoccupazione nostra, è molto diverso, dal cedere alle sue insistenze e dal non reggere la collera del bimbo.

    Quindi, fidiamoci un po’ di più del nostro buon senso e se qualche volta ci troveremo in queste circostanze, scegliamo di essere noi stessi e, attraverso il dialogo, spieghiamoci e ricerchiamo con serenità, il contatto con loro!

    • 2° ingrediente. L’EMPATIA: comprendere e intuire i sentimenti dell’altro, mettendoci nei suoi panni,

    come se” quei panni fossero i nostri

    L’empatia, presuppone il mettere temporaneamente il silenziatore ai nostri personali vissuti, valori, punti di riferimento, per assumere provvisoriamente quelli dell’altro.

    Solo se saremo capaci di calarci nei panni del figlio, riusciremo, per esempio, a vedere e a sentire tutta la paura e il timore, di essere sostituito da un fratello in arrivo. Ecco allora che il suo regredire attraverso atteggiamenti più infantili della sua età, non è semplicemente un capriccio, ma un comportamento funzionale al suo bisogno, di essere coccolato e rassicurato. Pensare che nostro figlio sia spaventato, è molto diverso dal pensarlo cattivo od egoista e, questi due diversi pensieri, attivano atteggiamenti nei suoi confronti, altrettanto diversi.

    Essere empatici, significa cogliere il vissuto dei figli con i loro occhi e le loro orecchie, questo ci porterà a comprenderli davvero dal profondo. Così facendo, in modo spontaneo e senza nessun insegnamento esplicito, anche i nostri figli impareranno ad essere empatici con noi.

    • 3° ingrediente. L’ACCETTAZIONE POSITIVA INCONDIZIONATA: lasciar essere l’altro così com’è, senza condizioni di sorta

    L’accettazione di cui parliamo, riguarda la persona, non i suoi comportamenti o le sue idee. Possiamo non condividere un comportamento di nostro figlio, ma accettare ugualmente il bambino. Il contesto di amore e accettazione che egli respirerà, gli consentirà di ascoltare a sua volta le correzioni o i suggerimenti del genitore, dimostrandosi così disponibile al cambiamento. Se al contrario, il bambino non si sentirà accettato, tenderà a difendersi e a rispondere a sua volta con il linguaggio della non accettazione, contribuendo all’esacerbazione del conflitto.

    L’accettazione rispecchia il rispetto profondo per il bambino e la piena libertà a lui concessa.

    Nel percorso di crescita, quando parliamo di libertà non ci riferiamo al …

    FARE TUTTO QUELLO CHE CI PARE

    ma alla libertà di

    ESSERE SE STESSI

    Una persona libera, non è quella che fa ciò che vuole, ma quella che fa delle scelte, che la rendono se stessa, esprimendo le sue vere aspirazioni.

    L’amore autentico e profondo verso i nostri figli, non cerca di renderli uguali a noi, ma li aiuta diventare se stessi. Più diventano se stessi e più si differenziano. Un figlio, più si sentirà accolto nella sua diversità e unicità, più si sentirà amato e darà amore. Più sarà rispettato e aiutato a crescere nelle sue qualità e caratteristiche, più saprà rispettare, accogliere e amare l’altro.

    In questo clima di accettazione e rispetto, i figli acquisiscono nuove competenze e correggono i propri sbagli, in modo naturale e spontaneo.

    Noi genitori sapremo esprimere il nostro amore e la nostra intenzionalità, facilitando al tempo stesso la crescita armonica del bambino, quanto più il nostro atteggiamento di base sarà impregnato di questi tre atteggiamenti: autenticità, empatia e accettazione positiva incondizionata.

    E per concludere con una simpatica metafora:

    dopo aver messo le “mani in pasta”, gusteremo insieme ai nostri figli i numerosi manicaretti che avremo saputo preparare con questi semplici tre ingredienti, conditi con l’olio dell’amore, il sale della unicità e l’aceto dei nostri limiti e delle nostre stanchezze!

    BUON A CRESCITA e BUON APPETITO a tutti!

  • Perché scrivere fa bene? A cura di Monica Rebuffo

    Con la scrittura comunichiamo ciò che pensiamo, ma anche ciò che sentiamo. Lo facciamo esprimendo le nostre emozioni, le nostre  sensazioni, i nostri sentimenti. Proprio per questa sua funzione, la scrittura ha un forte collegamento con la consapevolezza di noi stessi, perché per il suo tramite, nel momento in cui ci raccontiamo, noi rendiamo consapevoli gli altri, ma ancora prima noi stessi, di quel che proviamo.

    Nelle situazioni in cui non siamo ancora consapevoli, scrivere ci fa trovare le parole per esprimerci e ci chiarisce sentimenti confusi, incertezze, ambivalenze presenti dentro di noi. Quando siamo bloccati da angosce, tensioni, sentimenti che non riusciamo a tirar fuori, essa può assumere un valore liberatorio e terapeutico.

    Ecco allora che scrivere di sé a sé, consente di individuarci nella realtà, spogliandoci del falso perbenismo e delle aspettative ideali, che in quanto tali, debbono mantenere intatta la loro forma, per l’utilità di darci una direzione, ma non assumere quella della realtà attuale della persona.

    Cominciamo così a relazionarci a noi e non al nostro ideale e anzi, relazionandoci, ci scopriamo e ci individuiamo, chiarendo a noi stessi cosa proviamo e chi siamo.

    Viverci attraverso la scrittura, è come costruirci una stanza tutta per noi, un luogo e un tempo privati in cui entrare in contatto con le nostre emozioni più vere e più sentite. Accettiamo quello che proviamo e diamoci il permesso di vivere anche i sentimenti negativi, che spesso bloccano la libera espressione di noi stessi.  Tutto questo ci consentirà di rafforzare la nostra autostima.

    Da secoli si scrive per superare i momenti di sconforto e per ritrovare se stessi. La scrittura, se adottata con metodo e regolarità, come ha chiarito per primo Freud, è uno straordinario mezzo di riparazione, di ricucitura simbolica di quanto si è lacerato e rotto dentro di noi.

  • Neonato, il cucciolo dell’uomo. A cura di Monica Rebuffo

    I bambini nascono con alcuni bisogni primari, sia di tipo fisiologico che psicologico.  Rispondere a questi bisogni è fondamentale per la sua esistenza.

    Nutrire, coprire e lavare il neonato, è importante, tanto quanto, accarezzarlo e toccarlo.  il contatto fisico e le carezze, permettono al neonato di costruire l’identità corporea, cioè di sapere che ha le braccia, le gambe, il corpo.  Tutto questo rappresenta il prerequisito per la successiva esperienza di distinzione tra sé e gli altri.  In questo periodo infatti,  il bambino si percepisce un tutt’uno con la mamma,  e non sente ancora la propria esistenza come separata  dall’ambiente che lo accoglie e dalla persona che lo accudisce.

    In questa fase, i genitori competenti,  rispondono ai bisogni che il bambino esprime con il pianto,  che, a questa età, è l’unico mezzo comunicativo a sua disposizione.  Quando il piccolo è affamato e piange, sta esprimendo il suo dolore per i morsi della fame. Con il pianto ci chiede di prenderci cura di lui.  La risposta appropriata dei genitori (cioè farlo mangiare), gli permette di imparare che può fare qualcosa, in questo caso piangere,  per risolvere i propri problemi e sentirsi così adeguato. Sulla base di questa esperienza, potrà in seguito sperimentare nuovi modi per risolvere i propri problemi e sentirsi così efficace.

    Questo è anche il periodo in cui il bambino mostra le sue prime competenze. Ad esempio è in grado di sostenere il proprio peso (riflesso di piazzamento), di abbozzare un sorriso,  di esprimersi con un pianto diverso per ogni tipo di bisogno, legato alla fame, al dolore, alle carezze. Acquisendo l’abilità di sorridere, il bambino comincia ad utilizzare uno strumento per attirare  ed intrattenere le persone, in particolar modo la madre, sulla quale si concentra con un attaccamento quasi esclusivo, allo scopo di creare un punto di riferimento sicuro. In questa fase, il bambino può essere rassicurato dalla voce della mamma, dal succhiare non nutritivo e dall’essere cullato. 

    Se l’ambiente sociale è vivo e capace di rispondere alle richieste del bambino, egli maturerà istintiva fiducia in se stesso e verso l’ambiente circostante (“so cosa voglio e so come ottenerlo”).  Se l’ambiente sociale non reagisce ed è indifferente alle richieste del bambino,  egli maturerà tanta frustrazione e poca fiducia nelle sue capacità e nell’ambiente circostante.

    In questo primo stadio di sviluppo, difficilmente correremo il rischio di viziare il bambino, rispondendo alle sue richieste espresse attraverso il pianto. Lo vizieremo solo nel caso in cui,  la madre sostituendosi al bambino,  lo anticipa e non gli permette di esprimersi e di chiedere.  L’allenamento alla frustrazione, comincia sin da piccolissimo. Il bambino percepisce la fame, la esprime e tollera per qualche minuto l’arrivo del seno o del biberon. Quando il bambino non sperimenta frustrazione, perché viene sempre anticipato, non imparerà a tollerarla e drammatizzerà  ogni più piccolo stimolo. Al contrario, quando il bambino sperimenta troppa frustrazione,  perché non ascoltato nei suoi bisogni fisiologici o emotivi, non svilupperà fiducia nel mondo esterno, né percepirà valore o adeguatezza personale.

    Dal punto di vista esistenziale, il bisogno fondamentale del neonato è quello di cominciare a costruire la propria autostima e di sviluppare   fiducia in se stesso e nel mondo.

    C’è bisogno di imparare a desiderare                                                                                      Non lo insegneremo mai se  anticipiamo tutti i loro bisogni

    “UN PO’ DI FRUSTRAZIONE AIUTA A CRESCERE”

  • Genitori si diventa. A cura di Monica Rebuffo

    Una delle cose che più spesso sento dire, a proposito dell’essere genitori, riguarda la fatica e la frustrazione che questo ruolo comporta. Alle riunioni a scuola, al catechismo, al campo sportivo, non c’è luogo d’incontro per noi genitori dove parlare del costo e della preoccupazione che il figlio rappresenta nella nostra vita, non sia in primo piano.

    Questo accade, non perché non siamo contenti di noi, dei nostri figli o del nostro rapporto, ma perché spesso diamo per scontata la gioia, la soddisfazione e l’amore che ci unisce.

    Al contrario, quando ci poniamo con un atteggiamento positivo, cadiamo spesso nell’esaltazione del piccolo/a (“non per dire ma mio figlio è l’unico capace …”; “lui non attacca mai briga”; “non ha mai rotto un gioco in vita sua”; “è rispettosa e non fa mai i capricci”; ecc.), rischiando di essere emarginati dagli altri genitori, che finiscono per considerarci esagerati e fuori dal mondo.

    Ci sono molti motivi che ci spingono a cadere nell’uno o nell’altro atteggiamento di fondo, ma non è questa la sede di approfondimento di ciò.

    Quello sul quale ci va di soffermarci invece, è l’idea che, tutto quanto rappresenti il positivo, la gioia, la felicità, la capacità, non sia degno di essere riconosciuto e condiviso con i nostri figli, probabilmente perc già soddisfacente e presente. Al contrario, tutto quello che rappresenta il costo, il limite, l’incapacità e l’errore, possa e debba diventare l’unica modalità di espressione e condivisione, probabilmente per migliorare e non perdere di vista la loro crescita .

    Ciò su cui abbiamo riflettuto sino ad ora, riguarda la modalità positiva o negativa di parlare dei nostri figli.

    E se parlare dei loro limiti e delle loro potenzialità non fosse l’unico e il miglior modo? A chi serve? Forse a noi per sfogarci e scaricare la paura di non essere buoni genitori? Per consolarci a vicenda? “Mal comune mezzo gaudio” recita un proverbio.

    Ma allora, se parlassimo di noi -genitori- anziché di loro -figli- descrivendo vissuti, emozioni e pensieri che i loro comportamenti ci suscitano. Non sarebbe forse meglio?

    Nel parlare di noi, cerchiamo di non dare nulla per scontato, specialmente e principalmente la gioia e l’amore di essere genitori.

    Questo è di sicuro il primo passo per costruire un terreno solido su cui appoggiare la nostra relazione. Questa gioia, non la dobbiamo mai dimenticare, neppure quando ci rompono il nostro vaso preferito o quando ci macchiano il muro appena ridipinto o quando scopriamo che hanno marinato la scuola. Anzi, è proprio “lei”, che ci consente di non lasciarci travolgere dalla rabbia o dallo sconforto.

    Cerchiamo di condividere la gioia di essere genitori, con tutti, ma specialmente con i nostri bambini e ragazzi. Facciamogli sentire quanto entusiasmo e quanto amore proviamo per il solo fatto che esistono, piuttosto che limitare il nostro rapporto a premiarli o punirli, in funzione di ciò che hanno fatto (cosa necessaria ma non sufficiente). Facciamo emergere i veri e profondi sentimenti verso di loro.

    Dire un “ti amo” o un “mi piaci” così a sproposito, spesso casualmente, non può far altro che consolidare il terreno sul quale si appoggia il rapporto con nostro figlio. Il terreno, così come il rapporto, dipende anche da me genitore, non solo dai comportamenti e dai modi di essere di mio figlio.

    Proviamo ad ascoltare dentro di noi, quanto bene ci fa stare il sentirci dire spontaneamente: “ti voglio bene”, “sei la/il migliore mamma/papà del mondo”, “sei la più bella e la più brava”, “non ti cambierei con nessuno”, …

    E noi facciamo altrettanto con loro?

    Sono abituata a farlo sentire speciale per il solo fatto che è lui il mio bambino/ragazzo? Non tanto per le sue buone o cattive prestazioni, ma per il fatto di essere se stesso? Di quanta gioia mi dia il solo fatto che esiste?

    A volte ci accorgiamo dell’importanza o della significatività dell’altro quando per qualsiasi motivo si allontana da noi.

    Pro memoria per i genitori

    Oggi, domani e dopodomani, quando sto cucinando, mentre leggiamo insieme una fiaba o quando faccio i lavori di casa, lo chiamo intenzionalmente (se ragazzo: gli mando un sms) e voglio ricordarmi di dirgli:

     

    Bigliettino da compilare e tenere sempre in vista nel portafoglio, per non dimenticare di riconoscere ai figli, tutta la gioia che ci restituisce il solo fatto che esistano