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  • ADOLESCENTI DEL TERZO MILLENIO, CONOSCERLI PER AMARLI

    ADOLESCENTI DEL TERZO MILLENIO, CONOSCERLI PER AMARLI

    Sempre più spesso siamo invasi da notizie di cronaca che ci comunicano dati allarmanti sul malessere dei giovani nella società odierna.

    L’età dei giovanissimi, coinvolti in eventi criminosi e disfunzionali, si abbassa sempre di più. Parliamo di spaccio, rapine, bullismo e cyberbullismo, sino ad arrivare all’induzione al suicidio, autolesionismo, disagio psichiatrico. Dal punto di vista sociologico, gli autori e le vittime di tali violenze non provengono esclusivamente da una specifica fascia della popolazione, quella più problematica; piuttosto, il fenomeno si estende trasversalmente a tutti i livelli sociali.

    Quando si riflette su questi temi, si tende spesso a concentrarsi sulla famiglia e sui genitori. Tuttavia, il fenomeno è più complesso e richiede una comprensione più approfondita del processo di crescita dei figli e dello sviluppo della società.

    Il ruolo della famiglia è estremamente influente alla nascita, ma tende a diminuire gradualmente man mano che i figli si avvicinano all’età adolescenziale. Questo periodo rappresenta la fase in cui i giovani dovrebbero cominciare a elaborare autonomamente le conoscenze acquisite fino a quel momento (regole, valori, competenze) e cominciare ad assumersi la responsabilità delle scelte che compiono e dei comportamenti che adottano. Tuttavia, sebbene il ruolo della famiglia sia fondamentale, non si possono attribuire ai genitori i comportamenti disfunzionali dei figli adolescenti.

    La responsabilità della famiglia è più accuratamente collegata alle carenze educative delle fasi precedenti che, quando presenti, non consentono la crescita e la maturazione psicologica e morale del ragazzo. Per questo motivo non è corretto associare semplicisticamente ai genitori la questione della responsabilità, che deve rimanere chiaramente attribuita ai giovani stessi. Può sembrare una dichiarazione contraddittoria e provocatoria, poiché i genitori effettivamente hanno la loro parte responsabilità. Tuttavia, tale affermazione contiene in sé la chiave per affrontare e compensare le fragilità dei figli e per correggere le nostre carenze educative.

    Riconoscendo ai giovani la loro crescita, gli permettiamo di assumersi la responsabilità dei propri successi e insuccessi, delle proprie debolezze e risorse. Nei percorsi di crescita regolari, li prepariamo per la vita futura; in quelli problematici, li supportiamo nella ripresa dalle cadute, favorendo l’apprendimento dagli errori commessi e promuovendo lo sviluppo di un atteggiamento più responsabile. Investendo in loro, esprimendo fiducia, perdonando gli errori e fornendo suggerimenti per migliorare, anziché giudicarli e sostituirli, offriamo loro l’opportunità di apprendere, di riflettere, di raggiungere obiettivi e di prendersi cura di sé e in seguito degli altri. In questo modo, recuperiamo il nostro ruolo di educatori, senza sostituirci a loro, ma riconoscendo il loro valore intrinseco.

    E ALLORA PERCHÉ, NONOSTANTE LE FAMIGLIE SI MUOVANO BENE SIN DALL’INIZIO O CORREGGANO IL TIRO STRADA FACENDO, LE COSE POSSONO NON ANDARE BENE LO STESSO?

    Gli studi sull’età evolutiva indicano che durante l’adolescenza, l’influenza dei pari rappresenta un fattore determinante per il comportamento dei giovani. Gli adolescenti sono particolarmente suscettibili all’influenza dei coetanei, a causa della loro maggiore sensibilità neurobiologica e della loro vulnerabilità al rifiuto sociale. È stato dimostrato che sono anche più propensi a correre rischi legali e sanitari, per evitare di essere rifiutati dal loro gruppo sociale. Ecco rivelata la causa di tanti comportamenti a rischio. Non dimentichiamo, inoltre, che il cervello degli adolescenti è ancora immaturo, dato che la corteccia prefrontale giunge a maturazione intorno ai vent’anni. Tale parte del cervello è responsabile: della regolazione delle emozioni, dei processi decisionali, della capacità di pianificazione per raggiungere obiettivi realistici, dell’organizzazione e delle competenze pro-sociali.

    In realtà, l’adolescente che cerca sé stesso allontanandosi gradualmente dai genitori, che si integra nel gruppo dei pari, che punta alla sua accettazione sociale e che sperimenta differenti comportamenti, sta seguendo un percorso di sviluppo naturale. Questo comportamento è sano, appropriato e conforme al processo evolutivo previsto.

    Un ragazzo che da bambino è stato sufficientemente educato:

    • alla gestione della frustrazione,
    • all’alfabetizzazione emotiva,
    • all’assunzione delle sue responsabilità, piccole da piccolo e sempre maggiori crescendo,
    • al rispetto degli altri,
    • alla collaborazione e a una sana competizione,
    • alla ricerca del senso della vita

    sarà maggiormente capace di muoversi nel mondo, senza fare gravi danni a sé stesso e agli altri. Lo farà sperimentando, sbagliando, imparando, per arrivare, infine ad affermarsi costruttivamente. Quindi, anche nella migliore delle ipotesi educative, il percorso dell’adolescente e dei suoi genitori non è lineare. Se a queste considerazioni, aggiungiamo ancora la variabile: influenza dei coetanei, ci rendiamo conto come è importante continuare a guidare i preadolescenti e gli adolescenti con regole condivise, limiti chiari e la capacità di risolvere i conflitti, imponendo restrizioni quando necessario.

    La grande influenzabilità dei giovani non parla necessariamente di fragilità caratteriale strutturale, ma più realisticamente di immaturità. Gli educatori devono metterla in conto come caratteristica fisiologica di questa fase evolutiva, relazionandosi in modo adulto ed educativo, e consentendo loro di assumersi la responsabilità delle conseguenze positive e negative delle proprie azioni. È solo sperimentando in prima persona, che si comprende profondamente, si elabora e si cresce. Quindi il percorso adolescenziale, realisticamente parlando, non sarà semplicemente positivo, ma turbolentemente positivo.

    L’adolescenza può essere vista come una fase di transizione critica, caratterizzata da fluttuazioni emotive, sfide e sviluppi significativi. Per facilitare il processo di crescita dall’infanzia all’età adulta, è essenziale comprendere e accettare questo percorso. Essere preparati psicologicamente e sostenere adeguatamente i giovani può rendere la maturazione più agevole e accelerare l’acquisizione di autonomia, pensiero critico e responsabilità.

    Il rapporto affettivo tra genitore e figlio si intensifica durante questa fase. Tuttavia, è fondamentale che il genitore mantenga un ruolo adeguato, evitando di assumere funzioni non appropriate come quella dell’amico, dello psicologo o dell’avvocato. Il genitore deve stabilire regole chiare, offrire fiducia, dialogare e condividere esperienze, fornendo spiegazioni sui comportamenti che conducono al successo o al fallimento. Deve inoltre perdonare, insegnare e permettere al giovane di sperimentare autonomamente, avendo fiducia nelle sue capacità. Questo approccio favorisce una crescita costruttiva sia per il genitore che per il figlio, superando le difficoltà tipiche dell’adolescenza.

  • PADRI E PATERNITA’ a cura di Monica Rebuffo

    PADRI E PATERNITA’ a cura di Monica Rebuffo

    Cosa ci succede quando progettiamo di avere un figlio, quando lo sogniamo o lo vediamo crescere? Quali sono le funzioni di un buon padre? Le caratteristiche che lo rendono tale? Queste e altre domande si affacciano alla nostra mente, quando ci avviciniamo col pensiero o nella realtà, a questa esperienza.

    Il cucciolo dell’uomo, rispetto ad altre specie, ha bisogno di un accudimento decisamente maggiore, che dura per buona parte dell’infanzia, e necessita di un codice materno predominante, che nutre, si prende cura, custodisce e protegge. Crescendo però, è essenziale che il ruolo del materno diminuisca e aumenti quello paterno.

    Tre buoni aggettivi per descrivere il codice paterno sono:

    • Responsabile: sa prendersi cura
    • Coinvolto: sa sperimentare il piacere, e non solo il dovere, di stare col figlio
    • Disponibile emotivamente: sa accogliere

    Il ruolo paterno è cambiato nel tempo: l’autoritarismo dei nostri nonni ha perso di legittimità. Oggi i padri sono alla ricerca di una relazione più serena e intima con i propri figli, che però non deve perdere di autorevolezza. I padri hanno il codice delle norme e delle regole, ma hanno anche quello delle emozioni, dell’intimità e degli affetti. Si differenziano dalle mamme, perché hanno meno ansie protettive e sono più abili nel facilitare i comportamenti di esplorazione del mondo e delle relazioni, permettendo la fuoriuscita dal nido.

    L’ autorevolezza di cui abbiamo parlato, necessita della capacità di esercitare un ruolo di contenimento e di argine, che chiaramente può provocare conflitti coi figli. Questo diventa, molto spesso, il punto di criticità, perché oggi i genitori vorrebbero essere solo amici. Ma i figli hanno bisogno anche di altro, per esempio, della nostra capacità di esercitare una giusta distanza, che non è affettiva ma educativa. Hanno bisogno che i genitori sostengano anche quell’elemento conflittuale che permetta loro di tirare fuori tutte le loro risorse e di farcela.

    Il padre oggi ha a disposizione strumenti più raffinati degli ordini e delle punizioni, ad esempio, le regole e il coraggio del confronto, che può diventare anche conflitto.

    L’adolescente ha necessità di un padre, che sappia comunicare che la regola non è un impedimento, ma la definizione dello spazio in cui potersi muovere liberamente. Se la regola è chiara, adeguata e contestuale, e dagli 11 anni anche negoziata, sarà uno strumento prezioso, per aiutare i figli a diventare autonomi e responsabili.  È il padre che accompagna nelle scoperte, che recupera i figli quando cadono, che li rimette in piedi. Il padre sta accanto senza sostituirsi, permettendo l’esperienza e la sperimentazione, anche fino al fallimento quando è necessario.

    Per poter uscire dalla tentazione del risucchio dell’infanzia, l’adolescente ha bisogno della “resistenza” del padre, che lo conduce a vedere oltre, e a saltare lo steccato per trovare la propria strada. Se non troverà questo argine in famiglia, a scuola, nello sport, in oratorio, si disperderà e non riuscirà a tirare fuori i propri talenti e la propria individualità, e noi non avremmo assolto appieno il nostro ruolo di facilitatori della sua crescita.

    Ai nostri figli, non dobbiamo donare solo amore generalizzato, ma essere in grado di introdurre ciò di cui hanno bisogno, per crescere e diventare autonomi.

  • LA DIMENSIONE PSICOLOGICA DELLA PREGHIERA                                     a cura di Monica Rebuffo

    LA DIMENSIONE PSICOLOGICA DELLA PREGHIERA a cura di Monica Rebuffo

    A differenza di quanto i media vogliono farci credere, crescere significa percorrere dentro di noi la strada che conduce alla scoperta della nostra unicità, stimolati in modo speculare dal percorso fuori di noi.

    Crescere non è realizzarsi solo esteriormente, ma anche e soprattutto interiormente. Solo l’equilibrio tra queste due dimensioni può condurre l’uomo verso la pace e la serenità sulla terra.

    La riflessione su questi aspetti, chiama alla mente l’immagine dell’albero, che vede nelle radici, la vita, il cuore e l’ancoraggio al terreno, mentre nel tronco e nella chioma, lo sviluppo esteriore di quella vitalità interiore non immediatamente visibile, senza la quale non ci sarebbe l’albero.

    Questo sviluppo armonico, non può realizzarsi senza l’incontro con la ricchezza e l’unicità degli altri.

    Ecco perché gli studiosi ci ricordano sempre che “l’uomo è essenzialmente un essere in relazione”. Perché ha bisogno degli altri e dell’incontro con gli altri, per crescere e maturare in un incontro con sé stesso, senza il quale, difficilmente perfezionerà in modo stabile ed equilibrato, la cura di sé e dell’altro.

    Ma come si realizza questo atteggiamento relazionale?

    Margherita Cestaro, nel suo articolo sull’Educare gli adolescenti alla spiritualità e alla religiosità, ci suggerisce la visualizzazione di due dimensioni:

    • quella orizzontale: che si concretizza nelle relazioni con gli altri e con la comunità e che permette la crescita e lo sviluppo dell’umano;
    • quella verticale: che si realizza nella relazione con la profondità del proprio sé … ma non solo … e con l’Altezza di ciò che va oltre la realtà empirica e si apre all’orizzonte etico-valoriale, fino a raggiungere, per chi sceglie, la relazione con il Tu di Dio. Questa dimensione è quella che ci conduce alla ricerca del significato delle scelte e delle azioni della nostra vita e che permette di trascendere da sé, elevandosi sino al rapporto con Dio e sviluppando la spiritualità.

    Quindi, la dimensione orizzontale che si realizza nell’incontro con l’altro, è condizione necessaria per accedere alla dimensione verticale, che ci conduce nell’interiorità. In questo percorso interiore, il contatto con noi stessi è il punto di partenza che permette di arrivare, per chi lo cerca, all’incontro con Dio.

    Questa lunga premessa è propedeutica all’approfondimento del significato della preghiera.

    La preghiera costituisce la forma di comunicazione e di contatto tra l’uomo e Dio. Il suo unico fine è quello di elevare l’anima a Lui. È azione di Dio e dell’uomo, che li avvicina in una relazione intima d’amore, consentendo all’uomo l’esperienza del proprio inestimabile valore, proprio perché amato incondizionatamente e gratuitamente. Ma non solo, la preghiera riconosce valore alle fragilità dell’uomo, perché è anche attraverso queste debolezze, che Dio si fa prossimo, proprio come accade nelle nostre famiglie, dove il genitore col suo amore, supporta, corregge e gioisce col figlio. La preghiera può essere considerata come l’atto attraverso il quale l’uomo parla a Dio. Mentre la meditazione, che chiede il silenzio dell’io, rappresenta il parlare di Dio all’uomo.

    Guardandola dal punto di vista psicologico, la preghiera assume anche una funzione di aiuto per la persona, perché diventa difesa da tristezza e sconforto, solitudine e disperazione. Essa attiva la funzione parasimpatica, riducendo la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca, rafforzando la risposta immunitaria e abbassando i livelli ematici di cortisolo (l’ormone dello stress).

    La scienza ci dice che la fede, che si coltiva attraverso la preghiera, rappresenta anche uno dei requisiti che permettono lo sviluppo della resilienza (capacità di far buon viso a cattivo gioco e di mantenere l’equilibrio nelle avversità). Dalle evidenze degli studi recenti, emerge come la fede riesca ad aiutare gli individui nei momenti di difficoltà, sia ad un livello personale che di comunità. Infatti, la propria dimensione spirituale, intesa come l’insieme di spiegazioni e significati che un individuo attribuisce agli eventi, è in grado di dare un senso a molti di questi, che invece potrebbero risultare difficili da superare (per esempio: lutti, tragedie, incidenti, malattie, calamità naturali, ecc.) sia per il loro impatto emotivo, sia per altre contingenze, come la gravità e la rarità.

    Inoltre, il senso di comunità e di condivisione che si crea nelle realtà religiose, riesce a fornire un aiuto e una connessione interpersonale molto intensa e di grande supporto per le persone che ne fanno parte, diventando esso stesso elemento terapeutico.

    Certo, psicologicamente la preghiera rappresenta, senza ogni ombra di dubbio, un aiuto al percorso dell’uomo sulla terra. Tuttavia, è indispensabile mettere a fuoco, che non può essere declassata a strumento terapeutico al servizio dell’uomo. La preghiera è una esperienza di ricerca e di incontro dell’uomo con Dio. È attraverso questa autenticità di desiderio e amore che si realizza l’effetto terapeutico della relazione col Divino. Non si può confondere l’amore con la strategia e la tecnica. È l’amore che cura. Senza amore, autenticità, desiderio, non c’è effetto terapeutico della “preghiera”.

    Santa Teresa d’Avila parlando della preghiera ci rivela: “l’orazione mentale, a mio parere, non è che un intimo rapporto di amicizia, nel quale ci si intrattiene spesso da solo a solo con quel Dio da cui ci si sa amati”

  • EMERGENZA EDUCATIVA. A cura di Monica Rebuffo

    EMERGENZA EDUCATIVA. A cura di Monica Rebuffo

    I quattro pilastri dell’educazione che permettono in modo naturale lo sviluppo della persona, dal bambino all’adulto, sono: l’educazione alle emozioni; l’educazione alla frustrazione; lo sviluppo e l’apprendimento di competenze; l’educazione all’interiorità.

    Quando nel processo di crescita manca uno dei punti sopra menzionati, qualsiasi esso sia, trasformiamo la nostra potenzialità educativa in rischio. Pertanto, al bambino mancherà un pilastro portante sul quale costruire la propria persona e la stessa potrebbe risultare fragile o instabile. Quando succede che vengono meno due o più di queste facilitazioni alla crescita, ci troveremo in una situazione di vera e propria emergenza educativa, che renderà più probabile per i nostri bambini e ragazzi, lo sviluppo di problematiche psicologiche e del comportamento.

    Nel momento storico che stiamo attraversando, dove la velocità della tecnologia e l’importanza dell’apparire, stanno sostituendo i naturali tempi di metabolizzazione delle esperienze e la realtà della vita, i passaggi più difficili da attuare a livello educativo sono: la gestione della frustrazione e l’educazione all’interiorità.

    Ma andiamo con ordine.

    1. EDUCAZIONE ALLE EMOZIONI. Promuovere un’alfabetizzazione emotiva permette ai bambini e ai ragazzi di comprendere il proprio mondo interno, di imparare a immedesimarsi negli altri e di sviluppare empatia. L’aiuto dei genitori e degli insegnanti, in questo ambito, può aiutare i ragazzi ad esplorare quello che sentono, a dargli un nome, a guardarlo e affrontarlo se necessario, senza reprimerlo, al fine di permettere la maturazione di individui realmente autonomi e compiuti.
    2. EDUCAZIONE ALLA FRUSTRAZIONE. Goleman, il padre dell’intelligenza emotiva, ci suggerisce come il reale successo di un individuo dipenda dall’incontro tra il talento e la capacità di sopportare la fatica e la sconfitta. Senza fatica non c’è successo. Nella vita reale non è sempre possibile evitare la frustrazione, allora cerchiamo di usarla per rafforzarci, imparando a tollerarla. Il che significa: allenare i nostri bambini e ragazzi: all’attivazione, alla pazienza, all’impegno, all’aiutare gli altri, al fare fatica fisica ed emotiva; ma significa anche: non sostituirci a loro, insegnargli a pensare, tollerare gli errori che compiono quando agiscono, insegnandogli ad apprendere anche attraverso l’insuccesso, non volerli perfetti e totalmente sotto controllo.
    3. SVILUPPO E APPRENDIMENTO DI COMPETENZE. Naturalmente per sentirci capaci e sicuri abbiamo bisogno di sviluppare conoscenze e competenze. Nel percorso scolastico, ma anche in ogni altra situazione di vita, dallo sport al lavoro, dal volontariato alle relazioni sociali, dalla gestione della salute a quella della casa. Tutto è stimolo alla conoscenza. Rinforziamo la loro curiosità e l’iniziativa, e non avalliamo la loro pigrizia.
    4. EDUCAZIONE ALL’INTERIORITA’. I ragazzi crescendo, hanno bisogno di appropriarsi del proprio atteggiamento relazionale, che si esprime nei rapporti con gli altri e con la comunità; ma anche nella relazione con la profondità del proprio sé e con l’altezza di ciò che va oltre la sua realtà empirica, abbracciando l’orizzonte etico-valoriale, fino a raggiungere, per chi sceglie, la relazione con il Tu di Dio.

    Il bambino che diventa ragazzo ha bisogno di sostituire gradualmente il dialogo esterno con le figure di riferimento, con un dialogo interno dove prima di parlare e di agire, si confronta con sé stesso, riflette sui pro e sui contro, sceglie cosa dire e cosa fare. Questo percorso così importante accompagna il ragazzo fuori dall’impulsività dell’infanzia e dell’adolescenza, e gli permette una riflessività che aumenta le possibilità di successo nelle situazioni di vita.

    Come spesso sottolineiamo nelle nostre riflessioni, non è necessario essere genitori perfetti, per facilitare i nostri figli. È sufficiente essere persone autentiche, realisticamente interessate al loro bene, che provano, imparando dagli errori, a fare del proprio meglio, accettando le imperfezioni. Se ci muoviamo con questa umanità, senza trascurare completamente nessuno dei 4 punti elencati, saremo sicuramente dei buoni allenatori nel loro percorso di crescita e, a buon titolo, coautori del capolavoro che possono diventare.

  • DALLA SOLITUDINE ALLA CONDIVISIONE. LA CURA EFFICACE ALLE NOSTRE PAURE. A cura di Monica Rebuffo

    Se vogliamo comprendere il motivo secondo il quale, alcune persone si riferiscono alla solitudine come a uno stato di grazia, mentre altre la percepiscono come uno stato di malessere, dobbiamo conoscere il diverso percorso di queste due generiche categorie di persone.  Possiamo dire che esistono due diversi tipi di solitudine.

    La solitudine bella, intesa come la sensazione di essere soli, ma non sentirsi soli, perché ci si percepisce in compagnia di sé stessi. Accade quando crescendo impariamo a prenderci cura di noi, anche attraverso la riflessione e il dialogo. Questo ci consente di affrancarci dall’impulsività e dall’idealismo dell’adolescenza e di entrare a pieno titolo imperfetto, nel mondo degli adulti.

    La solitudine brutta, intesa come isolamento sociale, nel quale siamo soli e ci sentiamo soli. È una condizione di abbandono, di malessere che può predisporre ad alcune patologie e che colpisce le persone vulnerabili (anziani, malati, separati, lutti) che riescono meno di altre, a rispondere agli eventi avversi della vita.

    Il sintomo principale di questo malessere è rappresentato dalla TRASCURATEZZA, intesa come incapacità di ascoltare, dialogare e prendersi cura di sé. 

    Perché accade questo?

    Quando facciamo fatica ad affrontare e dare un significato ai conflitti irrisolti, alle paure, alle rabbie, alle frustrazioni della nostra vita, tutto questo materiale emotivo non digerito, rimane imprigionato dentro di noi e ci condiziona. Pertanto, metterci in ascolto, significa ricollegarci ai dolori e ai problemi che non siamo stati capaci, né di accettare, né di lasciare andare. Ecco che paradossalmente ci tuteliamo non ascoltandoci. Purtroppo, questa finta terapia, ci fa allontanare sempre di più da noi stessi, versandoci in uno stato di isolamento e di insicurezza.

    Madre Teresa di Calcutta, ci ricordava come il vero disagio dell’occidente non fosse la peste, la lebbra o la tubercolosi, ma l’incapacità di sentirsi amati, valorizzati, apprezzati e connessi con sé stessi e con gli altri.

    È proprio in questa incapacità che si gioca la partita tra la solitudine bella, che ci permette di crescere, di affrontare i problemi e di maturare le nostre parti adulte, coltivando la salute fisica e mentale e la solitudine brutta, che ci fa ammalare nel corpo e nella mente.

    Per colmare questa incapacità, dovremmo riuscire ad abbandonare il nostro isolamento, chiedendo ascolto ed accoglienza. Ma affinché questa richiesta di aiuto sia fruttuosa, è fondamentale che sia impregnata di empatia, comprensione e disponibilità, da parte di chi fornisce questo soccorso.

    Ecco che la condivisione diventa la strada per superare la solitudine, ma solo ed esclusivamente se la persona in difficoltà è in una apertura capace di ricevere e di lasciarsi aiutare e se chi aiuta ha un atteggiamento di autentico bene e interesse per l’altro.

    Seguendo l’insegnamento della vita, comprendiamo come l’amore sia l’unica risposta alla solitudine. L’amore gratuito di chi dona e l’amore di gratitudine di chi riceve. Sono ambedue competenze che se esercitate, allenano entrambe le parti alla crescita. Chi dona ha la stessa dignità di chi riceve, ma un diverso percorso. L’uno aiuta l’altro a migliorarsi e a crescere. Ognuno secondo la propria vocazione e secondo il proprio cammino di vita, rispetto al quale non siamo chiamati a giudicare, ma a fare la nostra parte di amore.

  • BISOGNO DI MATERNITA’ a cura di Monica Rebuffo

    BISOGNO DI MATERNITA’ a cura di Monica Rebuffo

    La maternità non è un processo lineare, garantito dalla natura e dall’istinto, ma è un evento che racchiude in sé la complessità e la conflittualità che è propria di ogni vita e di ogni vita che si incontra.

    Desiderio per la psicologia è la forma umana del bisogno di sopravvivere e procreare che esiste in ogni essere vivente. Il desiderio a differenza del bisogno istintuale, vuole essere riconosciuto ancor prima che appagato; solo così può tradursi in ambizione consapevole e rendere quel genitore adulto.

    Credo di poter dire, senza timori di smentita, che il desiderio di maternità sia proprio delle madri, mentre il bisogno di maternità sia proprio dei figli.

    Tutti noi siamo figli. Siamo figli di un grembo che ci ha generato e di un seme che ci ha definito nel nostro genere. Siamo figli dell’uomo e siamo figli di Dio. E in quanto figli abbiamo bisogno di quella relazione col creatore/Creatore, per esistere e per divenire pienamente noi stessi.

    Ecco che il significato di quella parola “bisogno” comincia a chiarirsi spontaneamente. 

    È in quella relazione che si manifesta il bisogno. È di quella relazione che si ha bisogno.

    Può essere una relazione qualsiasi? No. Deve essere una relazione d’amore. Perché al di là della sopravvivenza fisica – aspetto importantissimo, ma sul quale non ci soffermeremo nella nostra riflessione – esiste una persona che è altro oltre al corpo. È emozioni, pensiero, anima. E sono proprio queste dimensioni che chiedono attenzione, nutrimento e rispetto. Sono proprio queste grandezze che necessitano di un materno che si prenda cura e che faccia crescere.

    Tutto questo richiede intenzionalità della madre e capacità di farsi da parte con il proprio ego. Richiede la necessità di uscire dalla relazione chiusa e narcisistica che ci sollecita questa nostra epoca, per continuare ad essere quel grembo che nutre e accompagna, anche dopo i nove mesi di gestazione. Richiede la capacità di   essere al servizio di un’altra vita, senza che questo la faccia sentire sminuita o sacrificata.  Tutto questo è prezioso e importante per il figlio, tanto quanto per la madre, che continua a crescere con lui.

    Ecco allora che il bisogno di maternità del figlio, quando esaudito, centuplica gli effetti positivi della cura della madre, divenendo crescita anche per lei e per gli altri rapporti che quella madre intesse nel mondo.

  • BISOGNO DI PATERNITA’ a cura di Monica Rebuffo

    Cominciamo col dire che il ruolo paterno è cambiato nel tempo: l’autoritarismo ha perso di legittimità.

    È finita l’epoca dei padri – padroni, oggi i padri sono alla ricerca di una relazione più serena e intima con i propri figli, che però non deve perdere di autorevolezza.

    Fino al secolo scorso, i padri giocavano un ruolo educativo attraverso i comandi e le punizioni, e questo spesso suscitava nei bambini un sentimento di paura e di lontananza affettiva.

    Oggi però, si è passati all’estremo opposto. Trascorsa l’epoca dei padri, siamo passati all’epoca dei figli, caratterizzata da un eccesso di cura, di ansia, di preoccupazione rispetto al benessere e, fondamentalmente, da una rinuncia da parte dei genitori al loro ruolo educativo, in particolare quello paterno.

    Il cucciolo dell’uomo, rispetto ad altre specie, ha bisogno di un accudimento decisamente maggiore, che dura per buona parte dell’infanzia e necessita di un codice materno predominante che nutre, si prende cura, custodisce e protegge. Crescendo però è necessario che il ruolo del codice materno diminuisca e man mano aumenti quello paterno. Pertanto le mamme continueranno ad esercitare proficuamente il loro amore, solo se riusciranno a farsi un po’ da parte, a vantaggio del padre. Questo, produrrà serenità e autonomia nei propri figli.

    Anche il padre nell’infanzia, ha un ruolo importante, ma meno definito. Inizialmente ha il compito di sostenere la madre e andando avanti di aiutare i figli a sviluppare le proprie autonomie.

    Ma il vero trionfo del padre, lo abbiamo in adolescenza. In quel momento, aiuta i figli ad uscire dall’infanzia e a prepararsi all’età adulta. Quindi, la funzione essenziale che svolge, è quella di mettersi tra la madre e i figli e di consentire e facilitare la separazione e il taglio del cordone ombelicale.  Senza questa funzione non è possibile crescere e là dove manca, la crescita dei bambini e dei ragazzi può essere compromessa.

    Spesso i padri di oggi faticano ad accettare un ruolo di contenimento, di argine, che chiaramente provoca conflitti coi figli; vogliono essere amici. Ma se non si mantiene una giusta distanza dai figli, che non è affettiva ma educativa, non si riesce a consegnare un’eredità, a donare il segreto prezioso del vivere, a sostenere quell’elemento conflittuale che permette ai figli di tirare fuori tutte le loro risorse e di farcela.

    Il padre oggi ha a disposizione strumenti più raffinati degli ordini e delle punizioni, ad esempio le regole e il coraggio del confronto, che può diventare anche conflitto.

    Occorre un padre che sappia comunicare che la regola non è un impedimento, ma la definizione dello spazio in cui potersi muovere liberamente. Se la regola è chiara, adeguata e contestuale e, dagli 11 anni, anche negoziata, sarà uno strumento prezioso per aiutare i figli a diventare autonomi e responsabili.  È il padre che accompagna nelle scoperte, che recupera i figli quando cadono, che li rimette in piedi. Il padre sta accanto senza sostituirsi, permettendo l’esperienza e la sperimentazione, anche fino al fallimento, quando è necessario.

    Il compito paterno è prevalentemente regolativo. Il “no” resistente del padre in adolescenza è fondamentale per il figlio. Per poter uscire dalla tentazione del risucchio dell’infanzia, l’adolescente ha bisogno della “resistenza” del padre, che lo conduce a vedere oltre e a saltare lo steccato per trovare la propria strada.

    Ai nostri figli, non dobbiamo dare solo amore generalizzato, ma dobbiamo dare ciò di cui hanno bisogno per crescere e diventare autonomi.

    Nell’adolescenza, sia i maschi che le femmine, hanno bisogno di misurarsi col tema del confronto e del limite (la regola) e di imparare a vivere e a superare i conflitti. Se non troveranno questo argine in famiglia, a scuola, nello sport, in oratorio, si disperderanno e non riusciranno a tirare fuori i propri talenti e la propria individualità.

    Ecco perché della paternità ce n’è un gran bisogno, proprio come della maternità!

    Sono le due facce della stessa medaglia, le due parti speculari della mela; hanno bisogno l’una dell’altra per completarsi e fornire ai propri figli la compiutezza dell’accompagnamento educativo, conducendoli così verso una sana ed equilibrata adultità.

  • I capricci dei bambini. Leggerli e gestirli

    I capricci dei bambini. Leggerli e gestirli

    I capricci
    leggerli e gestirli

    Ad uno sguardo superficiale, il capriccio appare come un atteggiamento bizzarro, irragionevole e spesso illogico del bambino. Rappresenta la manifestazione della non accettazione del volere di un adulto o di un coetaneo, poiché tale richiesta va in direzione opposta alla sua.
    Un bambino capriccioso diventa un bambino ingombrante, rumoroso, che spesso ostacola con la propria opposizione bizzarra e ostinata il fluire della vita dell’adulto.
    Un bambino capriccioso però, può manifestare il proprio ingombro anche attraverso il silenzio, il non ascolto e la fermezza delle proprie posizioni.

    Se facciamo lo sforzo di ascoltare più profondamente il bambino, ci accorgeremo che ogni capriccio è un comportamento che viene attivato da un bisogno specifico e il modo più utile e funzionale all’eliminazione di questo atteggiamento, sia per il bambino, che per il genitore, sta nel comprendere e facilitare questo bisogno che sta alla base.

    Possiamo provare a raggruppare in tre grandi categorie le motivazioni e i bisogni che attivano singoli comportamenti o strutturano abituali atteggiamenti dei bambini.

    1.Il naturale passaggio per giungere all’accettazione di una frustrazione
    Quanti genitori hanno sofferto, ai giardini o al supermercato, quando il loro angioletto si rotolava per terra, urlando sotto lo sguardo pieno di riprovazione degli altri.
    Eppure la collera è una reazione naturale e sana di fronte alla frustrazione. Quando un bambino si adira perchè non può avere qualcosa, la sua emozione gli permette di ritrovare il suo equilibrio e di accettare la frustrazione.
    A volte, noi genitori ci sentiamo esasperati, quando abbiamo spiegato ai nostri figli, che una certa cosa è assolutamente impossibile, ma loro si arrabbiano ugualmente.
    Le tappe che consentono al bambino di giungere all’accettazione di una frustrazione sono:
    1. la negazione
    2. la collera ….. quella che noi chiamiamo CAPRICCIO
    3. la contrattazione
    4. la tristezza
    5. l’accettazione
    L’accettazione della frustrazione, passa attraverso la collera.
    La frustrazione, se è moderata, è costruttiva. Fortunatamente, è impossibile soddisfare sempre un figlio. Può accadere che i negozi siano chiusi, che non si abbiano più gelati nel congelatore, che la mamma esca di casa per andare al lavoro, che l’amico sia dai nonni, …..
    Una certa dose di frustrazione è inevitabile ed è anche utile, a condizione che le emozioni, e in particolare la collera del bambino, vengano capite.
    Al contrario una frustrazione ingiusta, arbitraria o troppo grande può invece rivelarsi distruttiva.
    La sequenza che deve riprodursi più frequentemente affinchè un bambino si senta amato è:
    bisogno – richiesta – soddisfazione

    Quando le sue richieste non possono essere soddisfatte, allora è fondamentale che venga sempre capita la sua collera.
    La collera è un qualcosa di sano e positivo, è l’affermazione di sè dinnanzi all’altro; è la precisazione dei confini da non oltrepassare; è il rifiuto di ciò che fa soffrire. Dato che non sappiamo gestire la collera, scivoliamo spesso nella violenza. La violenza, è molto diversa dalla collera, perchè si rivolge contro l’altro. Perchè accusa, cerca di ferire e di distruggere.
    Pertanto, la collera è uno strumento per gestire la frustrazione e non deve essere eliminata, ma vissuta e superata.
    Esistono dunque collere sane, non violente, costruttive e collere eccessive, violente, distruttrici. Le prime devono essere ascoltate, le seconde decifrate. Tutte devono essere rispettate, poichè tutte indicano un bisogno.
    Quando l’aggressività sembra gratuita e senza scopo, lo scopo deve essere cercato un pò più lontano.
    Quando gli attacchi di collera sono numerosi o eccessivi, si tratta:
     di un accumulo di tensioni
     di una collera che ha per oggetto qualcos’altro
     dell’espressione di una collera inconscia o inespressa di un genitore
     di un’altra emozione (paura, tristezza) camuffata sotto forma di collera, perchè l’espressione dell’emozione autentica è impossibile o vietata.
    La risposta più funzionale alla manifestazione di un momento di collera la troviamo: nell’ascolto, nel rispetto e nell’empatia.

    2.La manifestazione di un disagio
    Il disagio, può essere definito come un fastidio, un imbarazzo, una scomodità, una molestia, un bisogno, una privazione.
    Quindi, una persona a disagio, è certamente una persona che attiva una serie di difese, per comunicare la sua fatica, e al tempo stesso, ritrovare il suo equilibrio, e la sua serenità.
    Quindi, è una persona che, speso inconsapevolmente, attiva una serie di comportamenti fastidiosi, per attirare l’attenzione su di sé, e paradossalmente, chiedere aiuto, per dare risposta ai suoi bisogni o alle sue paure.

    3.La fatica a gestire la frustrazione
    La frustrazione, rappresenta nell’immaginario collettivo, qualcosa a cui sfuggire, quasi il simbolo di scelte e investimenti sbagliati o inopportuni. Una persona frustrata, non è felice perché non si sente realizzata, nè appagata.
    In realtà nella vita di tutti i giorni, ognuno di noi si imbatte frequentemente in limiti esterni o interni, che gli impediscono di raggiungere obiettivi, mete o semplicemente di portare a temine azioni del quotidiano.
    La reazione emotiva a questa esperienza, è la FRUSTRAZIONE.
    La frustrazione non è necessariamente uno stato della persona, e può diventare un’indicazione di percorso. A volte, può indicare la necessità di imparare a tollerare un certo tempo, prima di ottenere risposte o successi; altre volte, può essere espressione di obiettivi o mete non raggiunte, a causa di nostri limiti interni (fragilità, valutazioni sbagliate) o esterni (sfortuna, impedimenti fisici, ecc.).
    Quindi, parlando dei nostri figli, diventa importante: allenarli ad accettare la frustrazione e a crescere su tali impedimenti, sfruttando le occasioni che la vita ci propone. Senza drammatizzare!
    In un certo senso, la frustrazione è indispensabile per farci crescere. Crescere nella vita, ma crescere anche nelle nostre capacità e nell’acquisizione di nuove competenze.
    Solo se diventiamo, giorno per giorno, sempre più capaci di sopportare un po’ di fastidio o fatica, rispetto alle cose che ci va di imparare, riusciremo ad apprenderle e a migliorarci sempre più.

    Se non avessi sopportato la fatica e il fastidio di cadere,
    non avrei mai imparato ad andare in bicicletta.

    Se non avessi sopportato la fatica e il fastidio di andare 3 volte la settimana per due ore in bicicletta,
    non sarei diventato corridore junior.

    Se non avessi sopportato la fatica e il fastidio di perdere qualche gara, non sarei mai diventato anche vincente.

  • COVID-19 e Salute Mentale

    COVID-19 e Salute Mentale

    Intervista con la dott.ssa Rebuffo Monica

    Condotta da Federica Novelli Presidente dell’Associazione Genitori Attivi

    Domande di interesse psicologico emerse dal sondaggio coi propri associati AGA

    Che cosa ci lascerà psicologicamente tutto questo? Quali danni?

    Il momento che stiamo vivendo, è davvero pesante. Per alcuni più sfortunati, anche fisicamente; per tutti, senz’altro psicologicamente. Questo virus ci ha posto davanti il tema della nostra oggettiva fragilità, della nostra piccolezza e della morte. Ha azzerato in nano secondi tutte le differenze sociali, culturali e di razza. Ha bandito, per sopravvivenza, l’individualismo, richiamandoci ad un senso di comunità e di solidarietà, di accettazione della nostra oggettiva fragilità. Tutto questo ci allontana dal delirio di onnipotenza e di dominio, che la nostra società consumistica e narcisistica ci aveva abituato, fino a qualche settimana fa.

    Se saremo in grado di cogliere questa provocazione, lavorando sul senso di realtà e sull’accettazione dei nostri limiti, allora ne usciremo cresciuti, più consapevoli e adulti e la nostra vita si rimodulerà principalmente su valori collaborativi e di rispetto degli altri.

    Se non saremo in grado di cogliere questa provocazione, e subiremo passivamente il bombardamento stressogeno del pericolo, allora probabilmente matureremo sintomi legati all’ansia, all’irritabilità, all’insonnia e alla depressione e potremmo anche sviluppare un disturbo post traumatico da stress.

     Che futuro ci aspetta? La vita tornerà normale?

    Precedenti ricerche condotte per la quarantena dovuta alla SARS, in Australia e a Taiwan, mostrano come 4 settimane di quarantena bastino a generare nel 28% dei soggetti, sintomi da stress post traumatico.

    Lo stesso studio ci dice che 3 anni dopo la fine della quarantena, il 10% dei soggetti sottoposti al provvedimento dimostravano sintomi di depressione acuta, legati al trauma non curato del periodo dell’isolamento.

    La percentuale di danni psicologici, a carico del personale medico ed infermieristico, è naturalmente ancora più alta, arrivando addirittura al 34 %.

    Affinché la vita ritorni “normale”, e non ci faccia scivolare in sindromi psichiche, e necessario elaborare quello che stiamo vivendo. È indispensabile affrontare, da soli o con l’aiuto di professionisti del settore, i vissuti e le paure traumatiche che abbiamo provato. Più direttamente o marginalmente.

    Se dovessi far riferimento ad un termine, da utilizzare in questa situazione, che può fungere da spartiacque tra un atteggiamento costruttivo e uno meno costruttivo, userei la parola ATTIVO.

    Noi dovremmo vivere questo isolamento, non in modo passivo, come se fossimo in attesa di qualcosa, ma in modo ATTIVO, abitando il nostro tempo e il nostro spazio. Come? Riscoprendo la propria creatività, i propri sogni, l’entusiasmo nel fare le cose. Non si tratta di dover mettere in campo grossi progetti. Per esempio, potremmo impegnarci nell’apprendimento di qualcosa che ci è sempre piaciuto, ma non abbiamo mai avuto tempo da dedicargli. Può essere davvero qualsiasi cosa. Dall’apprendimento di una lingua straniera, facendo un corso online. Al cimentarsi nella cucina. All’improvvisarsi agricoltori o floricoltori sul balcone, facendosi una cultura sulle orchidee, ecc… Qualsiasi cosa ci venga in mente, diventa per noi un’ottima medicina naturale che:

    • ci distrae dal pensiero fisso della pandemia e dalla paura del contagio
    • ci permette di investire pensiero e concentrazione, in una “creazione” … cioè nell’acquisizione di una qualche competenza, che prima in noi non c’era. Questo potrebbe sprigionare vissuti positivi e magari divertenti, a discapito della paura e del panico. In questo modo, attiveremo la nostra GENERATIVITA’ creativa. La nostra capacità di generare vita, nelle idee, nelle competenze, nei progetti … non male in questo momento di paura e di morte!
    • ci pone in un atteggiamento attivo. Avete presente la famosa “goccia nel mare”? Ecco ognuno di noi, non è chiamato a salvare il mare, ma a portare la propria piccola goccia, che si traduce:
    • nella tutela della salute fisica: in un atteggiamento rispettoso delle norme messe in campo;
    • nella tutela della salute psicologica: in un atteggiamento attivo e propositivo.

    Come affrontare l’angoscia e gli stati di panico?

    In questo periodo, così come in tutti i momenti in cui viviamo situazioni di stress o di timore per qualcosa di spaventoso che sta capitando nella nostra vita, è importante imparare a gestire la propria reazione emotiva. Come farlo?

    1. In assoluto, la prima medicina naturale conosciuta e praticata da tutti, è la RESPIRAZIONE. Così imparare a respirare in modo consapevole e profondo riportando l’attenzione su di noi, e appoggiando la nostra paura anche sul corpo, è senz’altro qualcosa di molto, molto utile ed efficace. A questo proposito è possibile scaricare da youtube qualche video che spieghi come praticarla in modo semplice e consapevole.
    2. In linea con questo suggerimento, invito anche alla pratica di semplici esercizi di rilassamento, che facilitino la giusta distanza dalle paure, aiutandoci a non amplificarle.
    3. E ancora, mettiamo a fuoco, quanto sia fondamentale imparare a riappropriarci della consapevolezza del qui ed ora, lasciandoci coinvolgere completamente in quello che stiamo facendo. Per essere presenti nel qui ed ora è importante lasciarsi guidare dai propri sensi, abitando il tempo e non rincorrendolo. Per esempio, se pulisco il fornello, utilizzo tutti i miei sensi coinvolti nell’esperienza, vista, odorato, tatto, udito, per essere davvero presente nella realtà, e non distratta dai miei pensieri e dal mio rimuginare. E così, se guardo un film o leggo un libro, mi sforzo di entrare nella storia lasciandomi coinvolgere completamente…
    4. Quando però l’ansia e l’angoscia ci assalgono, e nonostante i nostri tentativi, fatichiamo a tenerle a bada, è bene rivolgersi al proprio medico di base, che ci guiderà, suggerendoci il supporto farmacologico più adeguato alla nostra situazione.

     Aumenterà la depressione nella popolazione?

    Certamente potrebbe succedere.

    Per questo è importante, se non riusciamo a prevenirla, almeno non trascurarla, chiedendo aiuto precocemente, senza vergognarsi di nulla e senza giudicarsi. Dobbiamo essere consapevoli che forse la più grande conquista di questo momento epocale di crisi mondiale, attivato dal coronavirus, è la consapevolezza della nostra umana fragilità, più ne prendiamo coscienza come elemento oggettivo e liberatorio di realtà, più saremo in pace con noi stessi, in equilibrio e fuori dai sintomi!

     Il rapporto con gli altri ci porterà ad essere più diffidenti per paura del contagio?

    Anche questo è possibile. Succederà, se noi continueremo a gestire la realtà, solamente attraverso il controllo esterno. Chiedendo solo agli altri di tutelarci, attraverso i loro comportamenti e il loro senso di responsabilità.

    Se invece questa esperienza, attiverà in noi un momento di crescita, grazie al quale, impareremo a chiedere anche a noi stessi, di fare la nostra parte attiva, allora più che la PAURA di essere contagiati, vivremo la TRANQUILLITA’ nella nostra prudenza.

    Naturalmente la responsabilità degli altri, abbinata alla nostra, rappresenta l’antidoto più efficace, contro possibili sindromi ansiose e atteggiamenti di chiusura sociale.

    Quali segni di disagio potremo sviluppare ora o nel prossimo futuro, noi e i nostri figli?

    I sintomi che possiamo manifestare, come già anticipato, sono quelli legati all’ansia, al nervosismo, allo stress, alla depressione. Rispetto ai quali è importante chiedere aiuto, affinché non si intensifichino, spingendoci verso un malessere più grande. Quando i sintomi sono acuti può essere importante anche un supporto farmacologico. Ma sicuramente al di fuori del momento acuto, è fondamentale che la persona impari a decifrare e gestire le proprie reazioni emotive, attraverso un percorso di psicoterapia. Allora il malessere può diventare una importante occasione di crescita della persona.

    Perché molta gente si comporta in maniera sconsiderata?

    Questo succede per motivi diversi che hanno a che fare con la nostra maturità di persone e col nostro equilibrio mentale.

    Ci sono persone che deliberatamente sfidano i divieti e le norme, non solo in periodo di coronavirus, e lo fanno: per attirare l’attenzione; per un atteggiamento antisociale; per un atteggiamento autolesionista …

    Dall’altra parte, ci sono persone così spaventate, che per gestire la loro ansia processano in maniera diversa la realtà semplificandola, e quindi sottovalutando i pericoli.

    Mentre i primi usano in modo strumentale una fragilità sociale, per propri bisogni personali.

    I secondi cercano di stare a galla, cercando di gestire le proprie paure. Purtroppo però, lo fanno in modo insufficiente, manipolando a loro volta inconsapevolmente la realtà.

  • IL PANICO a cura di Monica Rebuffo


    Il panico è una reazione che sorge in maniera acuta ed è caratterizzata da improvviso sentimento di paura, associato a tachicardia, sudorazione, difficoltà a respirare, sensazione di confusione mentale e di svenimento.
    Sorge in modo inaspettato, spesso senza che sia possibile identificare alcun evento scatenante, raggiungendo il picco massimo nel giro di dieci minuti.
    Il timore immediato della persona è quello di morire. Anche se in realtà, sotto il profilo fisico, non emerge nessuna compromissione reale, degli organi associati ai sintomi:

    Cuore > palpitazioni
    Gola > soffocamento
    Testa > confusione mentale

    Il disagio si esaurisce del tutto, nel giro di mezz’ora al massimo, ma la sua intensità è tale, che è possibile rimanere sfiniti anche per giorni interi.
    Il significato profondo di una crisi di panico, è quello di incanalare tutti i nostri disagi esistenziali e dar loro voce, per evitare che si trasformino in qualcosa di più grave, come una malattia fisica.
    In questo modo, diamo sfogo ad una grande carica di energia, spesso negativa, che giace dentro di noi e la mobilizziamo, evitando di somatizzarla.
    Il fatto di accumulare molte tensioni e disagi, è tipico delle persone che hanno un grande timore del cambiamento e che non sono disponibili a lasciarsi trasformare, dal fisiologico trasformarsi della vita, delle persone, degli eventi. Al contrario, esse tendono ad “ingessare” emozioni, ruoli, rapporti. Devono tenere tutto rigidamente sotto controllo, al servizio di ideali e moralismi.


    Ecco allora che l’attacco di panico, con le sue caratteristiche di: improvviso, inaspettato, sconvolgente e acuto, “fulmine a ciel sereno”, sconquassa quel rigido e soffocante meccanismo, di apparente calma piatta. Così facendo: 1. offre l’occasione, di rivedere quelle scelte di vita e quei modi di essere, che travolgono e soffocano i nostri desideri più intimi
    2. consente (se siamo disponibili a riconoscere la provocazione che ci lancia), di rimuovere quel gesso sotto il quale palpitano desideri, passioni, emozioni, che spesso costringiamo in un’immagine rigida: l’ideale di noi.


    Non è sano ingabbiare le emozioni, perché con esse viene ingabbiata anche la nostra energia vitale.
    Tuttavia, non è sempre facile arrivare da soli ad una maggiore chiarezza interiore, allora, possiamo ricorrere ad un supporto psicologico, oppure a tecniche di rilassamento, che ci potranno consentire di superare il disagio emotivo e ci insegneranno, come raggiungere un maggior controllo in modo autonomo.


    ED IO SO VIVERE DANDO VOCE ANCHE AI MIEI DISAGI?